Santiago Bernabeu: la fabbrica dei sogni

Battiti a mille e occhi arrossati nel nominare quello stadio, che tanta fortuna portò alla causa italiana nel 1982. Era l’Italia di Zoff e Scirea, di Rossi capocannoniere e di Conti miglior giocatore del mondiale, dei baffi tagliati di Gentile e dell’urlo di Tardelli, di Bearzot e Pertini avversari a carte nel viaggio di ritorno verso casa.

Quanti ricordi legati a quello stadio, il cui nome è rimasto impresso nella memoria dei tifosi quasi fosse il dodicesimo della formazione messa in campo nella notte magica di Madrid. Ma passiamo oltre, per evitare che i ricordi ci prendano la mano e si finisca per parlare solo del trionfo mondiale e della Germania annientata, ma vi assicuro che su queste pagine ci sarà un capitolo dedicato ai ricordi ed alle emozioni di quella sera.

Ripartiamo dal titolo e dalla “fabbrica dei sogni”, definizione azzeccata di Alfredo Di Stefano, che al Bernabeu aveva alzato diversi trofei negli anni d’oro del Real.

Cesare Prandelli concede il bis: miglior allenatore

Poteva vincerlo Mancini, tecnico dell’Inter dello scudetto finalmente conquistato sul campo, a quasi vent’anni di distanza da quello lontanissimo del 1989, poteva vincerlo Ancelotti, allenatore del Milan dei miracoli campione d’Europa e del Mondo, e invece il premio come miglior allenatore è finito per il secondo anno consecutivo nelle mani di Cesare Prandelli.

La soddisfazione poi è doppia se si considera che a votare non erano i giornalisti che, senza offesa per nessuno, potrebbero non capirci granché di schemi e tattica, ma gli stessi suoi colleghi, che evidentemente ne apprezzano le doti professionali.

E Cesare di pallone ne capisce, avendo calcato per anni i campi di calcio, sin dall’esordio in C1 con la maglia della Cremonese, quando guadagnava 50.000 lire al mese: un vero tesoro per lui che, orfano di padre, doveva provvedere alla famiglia. Poi una carriera in crescendo con l’Atalanta, che lo fece esordire in serie A, prima di cederlo alla Juventus, squadra con cui vincerà praticamente tutto quello che c’era da vincere (3 scudetti, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Italia ed 1 Supercoppa europea). Erano anni d’oro per la Vecchia Signora, un po’ meno per lui che veniva spesso relegato in panchina, con poche possibilità di mettersi in mostra.

Buffon non recupera e mette nei guai Donadoni

C’era un tempo in cui l’Italia era considerata terra di portieri: anni d’oro che creavano ai selzionatori della Nazionale non pochi problemi di scelta, tanto era folta la schiera di pretendenti alla maglia numero uno.

Il dopo Zoff, leader indiscusso tra i pali, aveva consegnato ai vari ct di turno dei dualismi che garantivano, qualunque fosse la scelta, sicurezza e capacità. Erano i tempi di Zenga e Tacconi, con il primo a raccogliere applausi e lo juventino a sperare in qualche disavventura del collega, per poter indossare i guanti e scendere in campo. Eppure in molti ancora si chiedono che cosa sarebbe successo se nella partita con l’Argentina del ’90 ci fosse stato Tacconi a difendere la porta azzurra. Ma il passato non si può cambiare e questa è decisamente un’altra storia.

Venne poi l’epoca di Pagliuca e Marchegiani a dividersi la gloria e la maglia nei Mondiali americani del ’94, con Peruzzi, giovane promessa, alla finestra, nella speranza di poter indossare la maglia numero uno nel futuro prossimo. Tempi di vacche grasse per i vari Sacchi, Vicini, Zoff e Trapattoni il cui unico problema era l’imbarazzo della scelta.

Dino Zoff: il numero 1 assoluto!

Mito: termine usato spesso a sproposito nel mondo del calcio per definire questo o quel calciatore che ci sa fare un po’ più degli altri con il pallone tra i piedi. Ma il titolo di mito bisogna guadagnarselo sul campo e nessuno come lui è riuscito così bene nell’intento di restare stampato nalla memoria dei tifosi.

Dino Zoff, classe 1942, interprete di un calcio in continua evoluzione, attraversato da decenni di gloriosa carriera. In pochi avrebbero scommesso su di lui, su quel ragazzino esile, che per mantenersi faceva il meccanico e giocava per puro diletto. Lo scartarono Juventus ed Inter, giunte fino in Friuli per osservare questo portierino in azione, ma l’occasione di riscatto gliela offrì l’Udinese, facendolo esordire giovanissimo in serie A.

Inizio in salita per lui, con 5 gol beccati all’esordio contro la Fiorentina ed un pubblico ostile pronto a sottolineare qualunque suo errore. Poi il Mantova per 4 anni e finalmente Napoli, città rumorosa, aperta, molto lontana da quel suo carattere chiuso e serioso. Eppure fu amore a prima vista e Dino diventò in fretta uno degli idoli di quella squadra che pure vantava la presenza di campioni come Sivori e Altafini, Canè e Bianchi.