Enzo Bearzot nel ricordo dei suoi campioni del mondo

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Immagini in bianco e nero, sbiadite dal tempo, curiose se confrontate con quelle degli eroi moderni. Immagini che però hanno un immenso significato per chi come me ha vissuto quelle emozioni assolutamente uniche ed irripetibili, mentre quegli undici leoni salivano sul tetto del mondo in barba ad ogni pronostico.

Immagini che oggi tornano più vive che mai, perché Enzo Bearzot, condottiero di quell’Italia Campione del Mondo se ne è andato per sempre. Non se ne va però il suo ricordo, il ricordo di un Vecio che ha saputo trasformare una squadra “normale” nella compagine più forte di quel torneo. Quei ragazzi oggi sono uomini di mezza età, ma ricordano il Vecio con nostalgia, sottolineando le sue qualità umane.

Che fine ha fatto Dino Zoff?

Di lui ci si ricorda quasi esclusivamente per il mondiale dell’82. Il suo nome è spesso associato a quell’immagine bellissima dei Mondiali di Spagna, mentre alzava quella coppa che all’Italia mancava da 40 anni, e che sarebbe mancata per oltre 20. A lui spesso è stato associato anche l’appellativo di portiere più forte della storia insieme a Lev Yashin, ed anche il record di diventare campione del mondo a 40 anni.

Ma di Zoff ci si ricorda molto poco della carriera dopo aver appeso gli scarpini al chiodo. Ad esempio ci si ricorda spesso che ha allenato l’Italia nello sfortunato Europeo del 2000, ancora meno che ha allenato la Lazio complessivamente per 7 anni, e saranno in pochissimi a ricordare che ha occupato anche la panchina di Juventus e Fiorentina. Ma poi, che fine ha fatto?

Alberto Maria Fontana: una vita in panchina!

Eccoci arrivati al consueto appuntamento del giovedì con la storia dei numeri uno, non sempre grandi tra i pali, ma tutti con una storia da raccontare, perché il portiere è quasi sempre il più bizzarro della compagnia.

E quello che andiamo a presentarvi oggi un po’ strano lo è davvero, visto che nella vita ha quasi sempre fatto il “dodicesimo” di professione, neanche avesse davanti a sé gente che di nome fa Dino Zoff o Gianluigi Buffon.

Il secondo a vita risponde al nome di Alberto Maria Fontana, trentaquattrenne portiere del Torino, tifoso dei granata da quando era un ragazzino ed amava buttarsi a terra, sognando di emulare Bacigalupo o Walter Zenga, che granata non era, ma che per lui rappresentava il mito assoluto nel ruolo.

Luciano Castellini: il giaguaro!

E’ stato uno dei più grandi portieri italiani, eppure spesso non viene inserito nella lista dei migliori numeri uno. Uno strano destino quello di Luciano Castellini, che fece grande il Torino prima ed il Napoli poi nel corso degli anni ’70-’80 con le sue parate impossibili.

Lo chiamavano il giaguaro per quel suo modo di saltare da un palo all’altro della porta con scatto felino e riflessi impressionanti. Molto scenografico nelle uscite e nelle prese al volo, era il padrone indiscusso dell’area piccola e capace di muovere la difesa come pochi altri al mondo.

Mosse i primi passi da professionista nel Monza in serie B, esordendo in una gara con il Como persa per 5-0. Il suo destino sembrava segnato: mai più i tifosi avrebbero voluto vedere tra i pali un portiere che si faceva bucare con tanta facilità. Si accomodò dunque in panchina per il resto della stagione, finché a cinque giornate dal termine, il titolare subì un infortunio e Castellini venne chiamato a sostituirlo.

Ivano Bordon: portiere di ghiaccio

Gli piaceva essere chiamato “pallottola”, così come lo aveva soprannominato Sandro Mazzola, dopo averlo visto schizzare da una palo all’altro della porta con velocità impressionante, ma Ivano Bordon era famoso soprattutto per l’atteggiamento glaciale con cui affrontava le gare, tanto da meritarsi il titolo di “portiere di ghiaccio”.

Una vita quasi interamente dedicata al calcio, soprattutto a difesa della porta dell’Inter, dove giocò per 13 stagioni, conquistando due scudetti e due Coppe Italia. Di lui si ricorda una gara in particolare, una di quelle partite storiche a noi tanto care, che avremo modo di raccontare più in là, in un articolo a parte.

Per ora accontentatevi di conoscerne l’epilogo, con un giovanissimo Ivano Bordon (20 anni appena), che prendeva il posto di Lido Vieri e regalava la qualificazione al terzo turno di Coppa dei Campioni alla squadra nerazzurra. Quella sera il ragazzino davanti ad ottantamila spettatori riuscì a parare di tutto e di più, concedendosi anche il lusso di respingere un calcio di rigore a Hevcknes, e guadagnandosi meritatamente il titolo di eroe della serata.

Storia degli Europei: Belgio-Olanda 2000

Penultimo appuntamento con la storia degli Europei di calcio prima di tuffarci pienamente nella kermesse continentale della prossima estate che ci vedrà impegnati in Austria e Svizzera. Ancora due nazioni a fare da teatro all’importante manifestazione, per la seconda volta nella storia dopo Euro 2000, giocatosi in Belgio ed Olanda.

Amaro ricordo per i colori azzurri, giunti fino all’epilogo e con le mani già sulla Coppa e poi beffati da un incredibile calo di tensione. Ma andiamo per ordine, ripartendo dall’inizio, da quella formazione affidata alle mani di Dino Zoff, già vincitore del trofeo da giocatore nel 1968 e deciso a ripetere l’impresa da mister.

Solita formula sperimentata nell’edizione precedente, con 16 squadre a darsi battaglia per la conquista del titolo. L’Italia venne inserita nel gruppo B con i padroni di casa del Belgio (teste di serie), la Svezia e la Turchia. Un girone comodo comodo anche se il mister italiano continuava a ripetere di non fidarsi di compagini dai nomi poco altisonanti.

Franco Causio: il Barone

A Torino lo chiamavano Brazil, soprannome che gli affibbiò Vladimiro Caminiti, penna magica del giornalismo sportivo e grande intenditore di pallone. Franco Causio però è ricordato da tutti come “il Barone”, per via di quello stile inconfondibile che lo caratterizzava sia in campo che fuori.

Cresciuto calcisticamente nel Lecce, squadra della sua città, trovò la sua grande occasione nella chiamata di Gianni Agnelli alla corte bianconera. Qualche stagione in prestito qua e là per la penisola e poi il rientro a Torino per diventare titolare inamovile in una squadra di grandi campioni.

Le enciclopedie dl calcio lo indicano come l’inventore del ruolo di “ala tornante”, con il compito di attaccare e l’obbligo di difendere all’occorrenza, ed insieme a Bruno Conti è considerato il più forte cursore di fascia della sua epoca.

Torino-Juventus 3-2: rimonta granata in 124 secondi!

Nel calcio vince il più forte. Quasi sempre, almeno. Ma ci sono delle occasioni particolari in cui non basta avere in campo sei Campioni del Mondo, non basta poter contare su un duo di fuoriclasse stranieri, non basta chiamarsi Juventus e giocare contro una meteora.

Era il 27 marzo 1983 ed il calendario proponeva il derby della Mole, con la Juventus all’inseguimento della Roma prima in classifica ed il Toro senza grandi ambizioni. Era l’anno che seguiva i Mondiali di Spagna, vinti dall’Italia per 6/11 bianconera: un vero vanto per lo squadrone di Trapattoni ulteriormente rinforzato con gli innesti di Platini e Boniek. Il sempreverde Bettega ancora dava il suo contributo, nonostante l’età, ed a centrocampo Massimo Bonini garantiva qualità e quantità.

Il Toro era invece tutto muscoli e cuore, quel cuore che è sempre stato caratteristica fondamentale per i colori granata, specie se si trattava di metterlo in campo contro i rivali storici. Nel suo piccolo anche il Torino era Campione del Mondo, avendo tra le sue fila Beppe Dossena, numero 10 azzurro nei Mondiali di Spagna, anche se durante la competizione non ebbe modo di mettersi in mostra. Ma la Juve era superiore in tutto rispetto a quel Torino, che poteva sperare solo di limitare i danni.

Sebastiano Rossi: record di imbattibilità, ma che carattere!

Uno come lui farebbe comodo al Milan attuale, continuamente alle prese con problemi di numeri uno. Ed in effetti, dopo il suo addio pochi hanno saputo dimostrare di essere degni di difendere la porta rossonera. Stiamo parlando di Sebastiano Rossi, portiere tanto forte quanto controverso, con quel suo modo di fare che spesso indispettiva pubblico e critica.

Iniziò la sua carriera nel Cesena, dopo aver avuto negli anni dell’adolescenza una spiccata propensione per il basket, tanto da sfiorare l’ingaggio in A1. Nei primi anni da professionista calcò i campi della serie C con Forlì, Empoli e Rondinella Marzocco, fino al 1986, quando il Cesena lo richiamò in casa per farlo esordire in A l’anno successivo.

Ma fu il 1990 l’anno del grande salto con la cessione al Milan e l’iniziò della carriera stellare. Una stagione da panchinaro dietro l’inamovibile Pazzagli e poi finalmente la maglia numero uno per sei stagioni consecutive, in cui Seba vinse praticamente tutto in Italia ed in Europa: quattro scudetti, di cui tre consecutivi, una Coppa dei Campioni, una Supercoppa Europea e tre Supercoppe italiane.

Gaetano Scirea: un esempio di lealtà sportiva

Se mai c’è stato uno per cui bisognava ritirare la maglia, era Gaetano Scirea, grandissimo calciatore e grandissima persona.

Parole di Enzo Bearzot che ha conosciuto bene l’uomo prima che il campione. Gaetano era un mito e non lo scopriamo certo adesso, a quasi vent’anni dalla sua prematura scomparsa. Amato e apprezzato da tutti, juventini e non, era un vero esempio di lealtà sportiva e di amore per la professione. Questo è lo striscione che gli dedicò la curva romanista la domenica successiva alla sua morte e, se considerate la rivalità storica tra Juve e Roma, avrete la misura di quanto Gaetano fosse rispettato.

Mosse i primi passi da professionista nell’Atalanta, ma il suo era un destino già scritto e non poteva mancare l’interesse dei grandi club nei suoi confronti. Arrivò la Juventus e Scirea finì in bianconero, grazie all’ottimo rapporto che legava le due società. Fu chiamato a sostituire quello che fino ad allora era considerato un mito nella difesa della Juve, Sandro Salvadore, un difensore rude e arcigno, tipico di quegli anni.

Da Pelè a Bobby Moore: la scaramanzia nel calcio (capitolo secondo)

Aruna Dindane non segna più? Colpa di un maleficio! Sembra una storia di altri tempi e invece stiamo parlando di un calciatore ivoriano, attualmente in forza al Lens, che dall’ 8 dicembre scorso non riesce più a buttarla dentro, nonostante faccia il bomber di professione. Per tentare di liberarlo dall’influenza malefica di qualche marabutto, sono state sacrificate due povere pecore ed un tacchino, ma sembra che non si sia ottenuto il risultato sperato.

Lo so, viene da sorridere, ma la superstizione fa parte da sempre del mondo del calcio, anche se pochi ammettono di avere dei riti propiziatori, per attirare la fortuna ed allontanare i guai.

Ne avevamo già parlato tempo fa, ma gli episodi sono tali e tanti, che forse vale la pena dedicare un secondo capitolo all’argomento. E non aspettatevi solo nomi semi-sconosciuti tra queste righe, perché la scaramanzia non ha risparmiato nemmeno giocatori come Pelè o Bobby Moore, che certo non avevano bisogno di talismani per dimostrare il proprio valore in campo.

Alex Ferguson contro i procuratori

I giocatori di oggi permettono agli agenti di vivere nelle loro tasche. Wes è stato con noi da quando aveva dodici anni, ma questi personaggi vivono la vita per i calciatori e, se loro sono contenti di continuare così, avranno ciò che cercano.

E’ l’ultima invettiva di Sir Alex Ferguson, che di recente sembra essere più nervoso e scontroso del solito, lanciando le sue ire verso chiunque gli si pari di fronte. E così, dopo aver tuonato contro i calciatori per i noti fatti della festa a luci rosse e contro il pubblico, reo a suo avviso di aver trasformato ogni partita dei Red Devils in un funerale, stavolta se la prende con i procuratori e promette battaglia.

A provocare la rabbia del tecnico, il ritardo nel rinnovo del contratto di Wes Brown, che su consiglio del suo agente starebbe giocando al rialzo con i dirigenti del Manchester United, non accettando la già vantaggiosa offerta di 50 mila sterline a settimana. Una mossa scorretta a detta dell’allenatore, che ora ha intenzione di portare avanti una vera e propria crociata contro la figura dell’agente.

Italia-Brasile 3-2: la partita del secolo!

Che strani scherzi fa la memoria, quando si tratta di ricordare qualcosa di così lontano nel tempo! Di anni ne sono passati 26 ed all’epoca ero poco più di una bambina, innamorata di quel pallone che rotolava su un campo verde, di quel calcio lento e statico, che a guardarlo oggi fa veramente sorridere.

Dovrei aver dimenticato determinate immagini, sostituendole nella mente con qualcosa di più recente, con scene che nel tempo sono passate davanti ai miei occhi, regalandomi grandi emozioni. E invece ancora adesso, se mi chiedete qual è la partita che più di ogni altra è stampata nella mia memoria e nel mio cuore, non ho dubbi: Italia-Brasile 3-2! Nessuna come quella mi ha emozionato tanto, nemmeno la finale con la Germania e nemmeno la finale in Germania.
A queste ultime dedicherò dei capitoli a parte nelle prossime puntate, ma ora permettetemi di dar sfogo ai ricordi di quell’afoso pomeriggio d’estate del 1982.

Erano le 17 e 15 del 5 luglio e al Sarrià di Barcellona andava in scena la storia, anche se nessuno lo sospettava, guardando le formazioni schierate a centrocampo al momento degli inni nazionali. La “povera” Italia si apprestava ad essere l’ennesima vittima sacrificale dell’immenso Brasile, che macinava bel gioco e risultati e che poteva permettersi anche di pareggiare, per raggiungere la semifinale. L’Italia veniva invece dalla vittoria con l’Argentina, ma ancora non si era placato lo scetticismo degli addetti ai lavori, inviperiti per le deludenti prestazioni degli azzurri nel girone eliminatorio.