La strage dell’Heysel 25 anni dopo

Tragedia, massacro, olocausto: così titolavano i giornali italiani il 30 maggio del 1985, all’indomani di quella che verrà ricordata per sempre come la strage dell’Heysel. Titoli che potrebbero far pensare ad un incidente ferroviario, ad un maremoto, ad un attacco terroristico e che invece servivano a commentare una “semplice” partita di calcio trasformatasi in un eccedio. Juventus e Liverpool si ritrovavano a Bruxelles per l’atto conclusivo della finale di Coppa dei Campioni.

I bianconeri non avevano mai messo le mani sulla Coppa, pur avendo disputato due finali (nel ’73 contro l’Ajax e nell’83 contro l’Amburgo, entrambe perse per 1-0), mentre il Liverpool aveva già vinto la massima competizione europea a livello di club per ben 4 volte (l’ultima proprio l’anno precedente contro la Roma). I presupposti per una finale degna di questo nome c’erano tutti, ma un’ora prima del fischio d’inizio accadde quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare: i tifosi dei Reds presero a spingere verso il settore Z dello stadio, sfondando le reti di recinzione e travolgendo i supporters bianconeri.

Champions League: le finali delle italiane

E’ il grande giorno dell’Inter, arrivata in finale di Champions League dopo un digiuno durato ben 38 anni, che diventano 45 se si fa riferimento all’ultima Coppa con le orecchie sollevata al cielo. Un’italiana in finale non la si vedeva dal 2007, quando furono proprio i cugini del Milan a festeggiare in quel di Atene, mentre per trovare la prima italiana in finale occorre tornare al 1957, seconda edizione della kermesse più prestigiosa a livello di club.

E allora andiamo a ripercorrere la storia delle italiane finaliste di Coppa dei Campioni/Champions League, a partire proprio da quel 30 maggio 1957, quando il grande Real spazzò i sogni della Fiorentina con un rigore di Di Stefano ed una rete di Gento nella finale di Madrid. L’anno successivo ancora una squadra italiana, il Milan, si giocava il trofeo contro i campioni d’Europa ed erano ancora le merengues a festeggiare, grazie ad un gol segnato nei supplementari da Gento, dopo che i 90 minuti si erano conclusi sul 2-2.

E venne l’anno della prima vittoria italiana in Coppa dei Campioni: ancora Milan in finale (22 maggio 1963 a Londra), ma stavolta i rossoneri riuscirono a recuperare lo svantaggio contro il Liblona ed a vincere grazie ad una doppietta di Altafini. Poi arrivò la doppietta dell’Inter, nel ’64 (3-1 al Real Madrid) e nel ’65 (1-0 al Benfica), mentre nel ’67 la stessa Inter cadde sotto i colpi del Celtic, pur essendo passata in vantaggio con Mazzola (2-1 il risultato finale).

Partite storiche: Juve-Amburgo 0-1

Correva l’anno 1983 quello successivo al Mondiale di Spagna che ci aveva fatto sognare ed esultare, regalandoci il terzo titolo ed il rispetto del mondo intero. Erano anni di predominio inglese a livello di club, tanto che le ultime sei edizioni della Coppa dei Campioni erano finite ad arricchire le bacheche delle squadre d’oltremanica.

Ma quel 1983 aveva qualcosa di speciale ed in finale arrivarono l’Amburgo e la Juventus, rappresentanti, guarda caso, di Germania e Italia, che solo 10 mesi prima si erano date battaglia in quel di Madrid per alzare la Coppa del Mondo.

La compagine tedesca era di gran lunga inferiore allo squadrone bianconero, che si avvicinava alla finale di Atene con la presunzione di chi sa che i 90 minuti finali sono solo una pura formalità prima della festa finale.

Gianluca Vialli: goleador di razza

Stacchiamo la spina per un po’ dalla stretta attualità fatta di biscotti e sospetti di combine e torniamo alle nostre care rubriche, occupandoci di un grande del passato che ha fatto bene in patria e ha tenuto alto il nome degli italiani in terra straniera.

Stiamo parlando di Gianluca Vialli, fenomenale atttaccante degli anni ’80-’90, nonché vero campione di simpatia.

Mosse i primi passi da calciatore (come direbbe il buon giornalista) nella Cremonese, squadra della sua città, contribuendo alla promozione dalla serie C alla B e poi al salto nella massima serie nell’anno di grazia 1984.

Marco Tardelli: un urlo mondiale!

Guardate l’immagine, chiudete gli occhi e tornate a quel magico 11 luglio del 1982. E adesso ditemi che cosa provate.

Personalmente non riesco a ricordare un’emozione simile (calcisticamente parlando, s’intende): brividi che scendono lungo la schiena ed una lacrima trattenuta a fatica nel ricordo di una serata unica ed indimenticabile.

Indimenticabile per me, per noi tifosi tutti, che abbiamo avuto la fortuna di assistere alla messa in onda di una pagina di storia, ma immaginate che cosa deve aver rappresentato quella serata per il ragazzo immortalato nella foto divenuta simbolo di un intero mondiale, tanto che ancora vi chiedessero chi era Tardelli, rispondereste quasi sicuramente “quello dell’urlo”.

Gianluca Pagliuca: il Gatto di Casalecchio

C’era una volta l’Italia dei portieri, quando i ct erano costretti a delle lunghe notti insonni per scegliere il numero uno da spedire tra i pali di una porta. E c’era un volta Gianluca Pagliuca che toglieva il sonno ai ct, indecisi se mettere in porta lui o Marchegiani, lui o Peruzzi, lui o Zenga.

Ma lui era sempre al suo posto, a lavorare sodo per farsi trovare pronto, a sudare sul campo di allenamento per dimostrare che la classe non è acqua e che si può essere i più forti anche giocando in una piccola realtà di provincia.

La sua storia parte dall’entroterra bolognese, dove è nato ed ha cominciato a tirar calci ad un pallone come attaccante. Come spesso succede per il suo ruolo, non aveva la vocazione a fare il portiere, ma, complice una febbre del numero uno titolare, si ritrovò in portà visto che era il più alto della squadra.

Sampdoria-Barcellona 0-1: bomba di Koeman e sogni infranti

20 maggio 1992, serata storica per il calcio italiano, che presentava in finale di Coppa dei Campioni un’assoluta novità, mai più giunta all’appuntameto con la storia dopo quel triste giorno. La Cenerentola che si giocava il ballo finale con il Principe azzurro si chiamava Sampdoria, anche se tanto Cenerentola non era, vista che aveva sbaragliato le avversarie durante il cammino, conquistandosi a suon di gol l’ultimo atto della competizione.

La sorellastra invece si chiamava Barcellona, anch’essa mai vincitrice fino a quel giorno della Coppa con le orecchie, sebbene il suo blasone facesse paura in giro per l’Europa.

Le due squadre si erano già ritrovate di fronte in una finale europea tre anni prima in quel di Berna, per giocarsi la Coppa delle Coppe. In quell’occasione i doriani avevano avuto la peggio e speravano nella notte di Wembley di potersi rifare con gli interessi.

Ivano Bordon: portiere di ghiaccio

Gli piaceva essere chiamato “pallottola”, così come lo aveva soprannominato Sandro Mazzola, dopo averlo visto schizzare da una palo all’altro della porta con velocità impressionante, ma Ivano Bordon era famoso soprattutto per l’atteggiamento glaciale con cui affrontava le gare, tanto da meritarsi il titolo di “portiere di ghiaccio”.

Una vita quasi interamente dedicata al calcio, soprattutto a difesa della porta dell’Inter, dove giocò per 13 stagioni, conquistando due scudetti e due Coppe Italia. Di lui si ricorda una gara in particolare, una di quelle partite storiche a noi tanto care, che avremo modo di raccontare più in là, in un articolo a parte.

Per ora accontentatevi di conoscerne l’epilogo, con un giovanissimo Ivano Bordon (20 anni appena), che prendeva il posto di Lido Vieri e regalava la qualificazione al terzo turno di Coppa dei Campioni alla squadra nerazzurra. Quella sera il ragazzino davanti ad ottantamila spettatori riuscì a parare di tutto e di più, concedendosi anche il lusso di respingere un calcio di rigore a Hevcknes, e guadagnandosi meritatamente il titolo di eroe della serata.

Sandro Mazzola: predestinato di classe

Un destino nel nome, un predestinato che deve sempre dimostrare di essere erede degno di un padre così importante. E’ la storia di Sandro Mazzola, figlio di Valentino, capitano del Grande Torino, prematuramente scomparso nella tragedia di Superga.

Sandrino all’epoca era un bambino ed ancora oggi confessa di aver cancellato quella fetta di esistenza che precedeva il grande dolore. Iniziò a tirar calci ad un pallone spinto da una vocazione naturale, sapendo sin da allora che il confronto con il papà-campione sarebbe stato inevitavile. Ha sempre ammesso che suo padre era di un altro pianeta e per quanto poi nella carriera Sandro ebbe modo di dimostrare grandi doti, non raggiunse mai la classe sopraffina del genitore.

Lo portò all’Inter Giuseppe Meazza, più per pietà verso un ragazzino che aveva perso suo padre in un modo così tragico, che per l’effettivo talento del giovane Mazzola. Ma Sandro negli anni riuscì tirar fuori la classe e ad onorare il cognome che portava.

Eusebio: la pantera nera

Erano gli anni del grande Real Madrid di Alfredo di Stefano che furoreggiava per tutta l’Europa, facendo man bassa di trofei. Erano gli anni del grande Brasile di Pelè già due volte Campione del Mondo e squadra di grandi talenti.

Eppure in quegli anni una nuova stella si affacciava sul panorama internazionale mettendo in riga gli illustri colleghi. Stiamo parlando di Eusebio Da Silva Ferreira, detto semplicemente Eusebio o, se preferite, “la pantera nera”.

Nato in Mozambico e naturalizzato portoghese, è il più grande talento del calcio lusitano, capace con il suo stile di gioco di incantare le platee di tutta Europa e di strappare applausi a scena aperta. Scoperto giovanissimo nel suo paese d’origine, venne portato in Europa dallo Sporting Lisbona, che trovò nell’africano l’elemento su cui fondare una squadra di primissimo livello.

Giacinto Facchetti: un terzino nato attaccante

Difficile per un calciatore nato attaccante essere arretrato al ruolo di terzino, ma Helenio Herrera non per niente veniva definito “Mago” e per Giacinto Facchetti prevedeva un futuro speso a correre dietro agli attaccanti avversari, a menar pedate per togliere il pallone dai piedi altrui.

L’avventura di Giacinto Magno, come lo chiamerà poi Brera, comincia proprio con un cambio di posizione in campo e quello spilungone abituato a buttarla dentro per la causa della Trevigliese si ritrovò improvvisamente terzino con licenza di offendere.

Correva la stagione ’60-’61 ed il ragazzo all’esordio contro la Roma non fece un’ottima impressione sugli addetti ai lavori, che già si chiedevano cosa avesse potuto convincere il Mago a portarlo a Milano. Ma Herrera aveva l’occhio lungo e sapeva che Facchetti sarebbe diventato una colonna fondamentale della sua Inter.

San Nicola di Bari: gioiello del sud

In occasione dei Mondiali del 1990 molti stadi vennero ristrutturati per ospitare l’evento, mentre in certi casi si preferì provvedere ad una costruzione ex-novo, che potesse garantire il rispetto delle norme imposte dall’Uefa.

Il San Nicola di Bari è proprio uno dei nuovi impianti che hanno visto la luce alla vigilia della kermesse mondiale.

Il progetto era ambizioso, se solo si pensa che fu affidato alla matita di Renzo Piano, architetto di fama mondiale e già autore di numerose altre opere di utilità pubblica. E proprio dal suo ideatore l’impianto ebbe il nome di “astronave”, riferito alla particolare forma, estremamente moderna.

Fabio Capello: la fama del vincente

Siamo così abituati a vederlo in giacca e cravatta su una panchina, che spesso ci dimentichiamo del Fabio Capello giocatore, grande numero 10 degli anni ’60-’70. La sua storia calcistica inizia con un gran rifiuto: lo cercava il Milan, ma suo padre aveva già promesso il ragazzino alla Spal e l’affare sfumò.

La grande occasione la ebbe con il passaggio alla Roma, nonostante una prima stagione non esaltante, in cui riuscì a collezionare solo 11 presenze. Poi arrivò Helenio Herrera sulla panchina giallorossa e Capello divenne il fulcro centrale della squadra: ottavo posto in campionato, abbondantemente riscattato con la conquista della Coppa Italia, con due gol proprio del talento di Pieris nell’ultima gara del girone finale.

Centrocampista di qualità, senso tattico e ottima visione di gioco, oltre alla spiccata propensione al gol: queste le caratteristiche di Fabio Capello, che accumulò nella capitale l’esperienza necessaria per compiere il grande salto.