Grande, grandissimo, nonostante l’altezza dica il contrario. Un numero 10 puro, di quelli che una volta venivano definiti fantasisti e che oggi si preferisce chiamare rifinitori. Ma Gianfranco Zola fantasista lo era davvero, figlio di quella generazione che tanti ce ne ha fatti vedere, ma pochi come lui.
Piedi buoni e classe da vendere, dribbling ubriacanti e punizioni da manuale del calcio, accellerazioni palla al piede da far arrancare qualunque difensore: è questo il ritratto di un uomo che ha dato molto al calcio, più di quanto abbia ricevuto in cambio.
Comincia a giocare nella sua Sardegna,
prima nella Nuorese poi nella Sassari Torres, dove viene scoperto da Moggi e
portato al Napoli. Tempi d’oro quelli per la squadra partenopea,
i migliori in assoluto della sua storia, quando poteva permettersi di schierare gente come
Maradona e Careca, Alemao e Ferrara. Zola arrivava all’ombra del Vesuvio
con la sua valigia piena di sogni e speranze, prima fra tutte quella di poter indossare un giorno
la mitica “numero 10”, seppure con il timore di dover sopportare il paragone continuo con il mito.