Il suo cuore di atleta lo ha costretto a fermarsi: troppo rischioso continuare a correre dietro ad un pallone con quella malformazione congenita che già gli aveva portato via un fratello. Il suo cuore di uomo, però, continua a battere, specie quando si tratta di seguire una causa che lo tocca da vicino, il razzismo.
Parliamo di Lilian Thuram, uno dei più forti difensori che abbiano mai calcato i campi francesi e non solo, nativo di Guadalupa, nero di pelle e per questo fatto oggetto spesso di episodi di discriminazione negli stadi e fuori.
Due anni fa ha creato dal nulla la Fondazione contro il razzismo, nella speranza che il futuro del mondo sia basato sulla convivenza civile e sull’integrazione, al di là delle diverse culture e del differente colore della pelle. Ieri era a Roma, invitato dalla Camera a margine della presentazione del Libro Bianco sul dialogo interculturale. Un’occasione per parlare di sé e dei problemi che ha dovuto affrontare “a causa” delle sue origini.
Una volta in Italia (forse eravamo con la Juve a Piacenza) un avversario ha cominciato a insultarmi. Io ridevo. Cannavaro gli ha detto a muso duro di piantarla. E tutto è finito lì. Il nome? Inutile, quello non era un razzista. Ma qualcuno l’aveva fatto diventare così.
Episodi che si sono ripetuti nel corso degli anni, anche e soprattutto quando Lilian giocava con la casacca della nazionale, “troppo nera” per essere considerata europea. Ma anche episodi legati alla vita privata:
Due anni fa a Parigi aspettavo Vieira fuori da un ristorante. Patrick era in ritardo così chiesi di entrare: non me lo permisero. Non mi avevano riconosciuto, in quel momento ero solo un nero.
C’è una remota possibilità di sconfiggere il razzismo, non solo negli stadi, ma anche nella vita di tutti i giorni? Thuram lotta per questo, sebbene l’impresa sia ardua. Auguri!