Si chiama Infantino e tutti dicono che fosse il più quotato per guidare l’era post Blatter. Dopo una sessione da outsider è diventato apprezzatissimo tra i boomaker e infine ha vinto quella prestigiosa poltrona. Non ha rinunciato a raccontarsi subito.
Una storia fatta di immigrazione, di sacrifici e di grandi miti. L’ha raccontata il giorno della sua elezione, la Gazzetta dello Sport.
“Sono fiero delle mie origini”, ha detto in una recente intervista. Perché Gianni Infantino è nato a Brig il 23 marzo 1970, in Svizzera, nel cantone vallese, ma ha i genitori italiani. Mamma della Valcamonica, papà di Reggio Calabria. “Sono figlio di immigrati e sono cresciuto alla stazione: se volevo vedere i miei dovevo andare lì”. L’Italia nel cuore, dunque, e i treni pure. In qualche modo entrambe le cose hanno contribuito a rendere Infantino quello che è oggi. Suo padre oltrepassava il confine e portava il piccolo Gianni a vedere l’Inter a San Siro: “I miei eroi diventarono Altobelli e Beccalossi”.
Sono state queste escursioni con il padre a farlo innamorare del calcio. Ma non del calcio giocato perché non aveva talento. Imprenditore dentro, fondò la Folgore, una squadra di calcio di soli italiani da iscrivere al campionato svizzero. Restò dirigente nell’epoca universitaria e fece tanti lavori pur di terminare di pagarsi gli studi:
“Per pagarmi gli studi ho lavorato nelle carrozze letto e alla pulizia dei vagoni, oltre ad aiutare mia madre nel chiosco dove vendeva giornali e cioccolata”.
Alla fine si è laureato in Giurisprudenza a Friburgo ed è entrato nella Fifa come consulente calcistico, poi è diventato segretario generale del CIES. Sa molte lingue e sembra davvero l’uomo della svolta.