Sandro Mazzola: predestinato di classe

Un destino nel nome, un predestinato che deve sempre dimostrare di essere erede degno di un padre così importante. E’ la storia di Sandro Mazzola, figlio di Valentino, capitano del Grande Torino, prematuramente scomparso nella tragedia di Superga.

Sandrino all’epoca era un bambino ed ancora oggi confessa di aver cancellato quella fetta di esistenza che precedeva il grande dolore. Iniziò a tirar calci ad un pallone spinto da una vocazione naturale, sapendo sin da allora che il confronto con il papà-campione sarebbe stato inevitavile. Ha sempre ammesso che suo padre era di un altro pianeta e per quanto poi nella carriera Sandro ebbe modo di dimostrare grandi doti, non raggiunse mai la classe sopraffina del genitore.

Lo portò all’Inter Giuseppe Meazza, più per pietà verso un ragazzino che aveva perso suo padre in un modo così tragico, che per l’effettivo talento del giovane Mazzola. Ma Sandro negli anni riuscì tirar fuori la classe e ad onorare il cognome che portava.

Fabio Grosso vittima del razzismo francese!

Razzismo o rancore mai sopito verso colui che ha contribuito in maniera determinante alla conquista di un mondiale ai danni della Francia? Forse entrambe le cose. Di certo rimane la gravità del fatto e l’impressione che gli italiani non godano di grande cosiderazione al di là delle Alpi.

La vicenda risale a sabato scorso e vede protagonista Fabio Grosso, ex Inter ora al Lione, ad un passo dalla vittoria del campionato francese. Nell’ultima gara giocata a Strasburgo l’italiano è stato determinante, segnando il gol del 1-2 e contribuendo all’espulsione di Mouloungui, autore di due interventi assassini (il secondo proprio su di lui).

Ebbene l’allenatore dello Strasburgo, Jean-Marc Furlan, non ha gradito quella che secondo lui è stata la sceneggiata del terzino nostrano ed a fine gara ha commentato senza mezzi termini:

Non si può dire che l’italiano abbia rinnegato i suoi geni e la sua razza.

Lev Yashin: il portiere del secolo!

Salto indietro nel tempo quest’oggi, molto indietro, per incontrare il “portiere del secolo” secondo la classifica Iffhs, Lev Yashin. Anche qui, come per molti altri campioni del passato presentati su queste pagine, è difficile trovare qualcuno che abbia memoria delle sue esibizioni, ma stando ai filmati d’epoca ed alle biografie si può certo immaginare la grandezza di questo numero uno nella sua epoca e in assoluto.

La sua storia è una serie infinita di aneddoti, come quello che vuole “portiere di fabbrica”, non perché controllasse le entrate e le uscite sul posto di lavoro, ma perché si dice che i suoi colleghi gli lanciassero dei bulloni, per verificarne i riflessi. Aveva solo 12 anni Lev e già era costretto a lavorare per mantenersi, figlio di quella Russia povera, immersa nel secondo conflitto mondiale.

Ma la vita grama durò poco e le sue doti eccezionali vennero ben presto notate dagli osservatori della Dinamo Mosca che si assicurarono le sue prestazioni. Il suo debutto nello sport però non avvenne in ambito calcistico, ma su un campo di hockey, dove il giovane Yashin riuscì a conquistare il titolo di campione dell’Urss. Poi il passaggio al calcio e la lunga carrriera a difesa della porta della Dinamo, con la quale vincerà cinque campionati e tre Coppe di Russia.

Franco Causio: il Barone

A Torino lo chiamavano Brazil, soprannome che gli affibbiò Vladimiro Caminiti, penna magica del giornalismo sportivo e grande intenditore di pallone. Franco Causio però è ricordato da tutti come “il Barone”, per via di quello stile inconfondibile che lo caratterizzava sia in campo che fuori.

Cresciuto calcisticamente nel Lecce, squadra della sua città, trovò la sua grande occasione nella chiamata di Gianni Agnelli alla corte bianconera. Qualche stagione in prestito qua e là per la penisola e poi il rientro a Torino per diventare titolare inamovile in una squadra di grandi campioni.

Le enciclopedie dl calcio lo indicano come l’inventore del ruolo di “ala tornante”, con il compito di attaccare e l’obbligo di difendere all’occorrenza, ed insieme a Bruno Conti è considerato il più forte cursore di fascia della sua epoca.

Stadio San Paolo: il cuore di Napoli!

Terzo stadio italiano per capienza ed importanza, dopo il Meazza di Milano ed l’Olimpico di Roma, il San Paolo di Napoli rappresenta quanto di meglio possa offrire a livello di strutture sportive il nostro mezzogiorno.

La costruzione risale al 1959 ed inizialmente il progetto prevedeva un solo anello, quello superiore, raddoppiato poi con l’aggiunta di un altro al di sotto de livello stradale, per problemi legati alla capienza. Le tribune erano costruite in marmo, come nella maggior parte degli stadi che videro la luce in quell’epoca e solo dopo varie opere d ristrutturazione ha assunto l’aspetto attuale.

Deve il suo nome ad un episodio di carattere storico-religioso, secondo il quale San Paolo avrebbe raggiunto le coste italiane attraccando proprio a Fuorigrotta, la zona in cui sorge l’impianto.

Gordon Banks: una parata per la storia!

Quella parata su Pelé fu la migliore della mia carriera. Non immaginavo sarebbe diventata così famosa. Anzi, al momento non mi accorsi neppure di quel che avevo fatto.

Era il 1966. L’Inghilterra ed il Brasile incrociavano le loro strade nel cammino che conduceva alla seconda fase del Mondiale. Tra i verdeoro giocava un certo Pelè, già due volte campione del mondo. Ma l’Inghilterra di quell’anno era costruita per fare la migliore figura possibile davanti al pubblico di casa, alla ricerca di quel titolo che non aveva mai vinto.

In porta giocava Gordon Banks, portiere trentunenne appena ceduto dal Leicester allo Stoke City, a causa di un capriccio del suo secondo, Peter Shilton, che fece includere una clausola sul contratto, che obbligava il club a schierarlo titolare. Banks si ritrovò fuori squadra, nonostante fosse il miglior portiere inglese di quei tempi, forse di tutti i tempi, nonostante fosse il numero uno della nazionale, nonostante avesse ancora molto da dare al calcio.

Ricardo Zamora: El Divino!

Difficile che lo abbiate visto giocare, molto probabile che ve lo abbiano nominato come uno dei più forti portieri della storia, il primo comunque di livello mondiale. Parliamo di Ricardo Zamora, numero 1 spagnolo degli anni ’20-’30, considerato come l’inventore del ruolo di portiere moderno.

Atletico e sportivo sin da ragazzino, passò attraverso la boxe, il nuoto, il mezzofondo e la pelota, prima di dedicarsi completamente al calcio. A 16 anni era già il portiere titolare dell’Espanyol e a 18 del Barcellona. Nel 1920 vinse la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Anversa e la sua fama fece il giro del mondo, tanto che al ritorno in Catalogna chiese all’allora presidente Joan Gamper un consistente aumento di stipendio. Si intromise nella trattativa l’Espanyol che offrì a Zamora un contratto da 1000 pesetas al mese, pur di assicurarsi le sue prestazioni. Un vero affronto per il Barcellona che si appellò ad una disposizione della Federazione Spagnola secondo la quale nessun giocatore poteva cambiare maglia senza il consenso del club di origine.

Intanto cominciava un lento declino fisico per il numero uno, che conduceva una vita piuttosto dissoluta, ma ciò non gli impedirà di essere acquistato dal Real Madrid nel 1930, per una cifra astronomica: 100.000 pesetas ai blaugrana e 40.000 all’anno per lui.

David Trezeguet ancora escluso dalla nazionale

Antipatia personale: solo così si può spiegare l’ennesima esclusione di David Trezeguet dalla lista dei convocati di Domenech. 39 i nomi sul taccuino del ct francese, ma ancora una volta tra questi non figura l’attaccante juventino, in forma strepitosa e vice-capocannoniere della serie A con 16 gol all’attivo.

Stando così le cose, il sogno di giocare l’ Europeo diventa un’utopia e, a meno di clamorosi ripensamenti, sembra proprio che il franco-argentino si godrà l’estate su qualche assolata spiaggia, guardando in tv i suoi compagni impegnati a difendere i colori nazionali.

Buon per noi, che avremo una gatta in meno da pelare, visto che i transalpini sono stati inseriti nello stesso girone dell’Italia e non potranno contare su uno dei più forti attaccanti europei degli ultimi 20 anni. Certo, ci saranno nomi di spicco come Karim Benzema, Thierry Henry, Franck Ribery e Florent Malouda, ma nessuno come David conosce bene il calcio italiano e l’apporto che avrebbe potuto dare sarebbe stato determinante.

Gaetano Scirea: un esempio di lealtà sportiva

Se mai c’è stato uno per cui bisognava ritirare la maglia, era Gaetano Scirea, grandissimo calciatore e grandissima persona.

Parole di Enzo Bearzot che ha conosciuto bene l’uomo prima che il campione. Gaetano era un mito e non lo scopriamo certo adesso, a quasi vent’anni dalla sua prematura scomparsa. Amato e apprezzato da tutti, juventini e non, era un vero esempio di lealtà sportiva e di amore per la professione. Questo è lo striscione che gli dedicò la curva romanista la domenica successiva alla sua morte e, se considerate la rivalità storica tra Juve e Roma, avrete la misura di quanto Gaetano fosse rispettato.

Mosse i primi passi da professionista nell’Atalanta, ma il suo era un destino già scritto e non poteva mancare l’interesse dei grandi club nei suoi confronti. Arrivò la Juventus e Scirea finì in bianconero, grazie all’ottimo rapporto che legava le due società. Fu chiamato a sostituire quello che fino ad allora era considerato un mito nella difesa della Juve, Sandro Salvadore, un difensore rude e arcigno, tipico di quegli anni.

Giancarlo Antognoni: un campione di sfortuna!

Idolo della Fiorentina, nessuno come lui nel cuore dei tifosi viola, vera bandiera di una squadra in cui è stato spesso l’unica stella a brillare: questo era Giancarlo Antognoni, uno dei più grandi numeri 10 a cavallo tra gli anni ’70-’80.

Nils Liedholm lo volle fortissimamente alla Fiorentina, dopo averlo visto in azione a Coverciano durante gli allenamenti della nazionale juniores. 453 milioni sborsati dall’allora presidente Ugolino Ugolini per strapparlo al Torino, che aveva da tempo messo gli occhi su quel ragazzino elegante e talentuoso.

Il ragazzo che gioca guardando le stelle.

Così lo definì Vladimiro Caminiti, e l’incedere a testa alta era solo uno tanti punti di forza del giovane Antognoni, che eccelleva nel ruolo di regista grazie alla straordinaria visione di gioco, ai lanci lunghi e millimetrici, alla falcata elegante ed imperiosa. Un numero 10 che amava mettersi al servizio della squadra più che tentare la soluzione personale.

Garrincha: il re del dribbling

Manoel Francisco Dos Santos, per tutti semplicemente Garrincha, è stato uno dei calciatori brasiliani più forte di tutti i tempi. Deve il suo soprannome al problema fisico che lo affliggeva sin da bambino, quando una malattia lo rese zoppo, con una gamba nettamente più corta dell’altra. Chiunque al suo posto avrebbe avuto difficoltà persino a camminare, ma la sua determinazione gli permise di conquistare il mondo con le sue giocate magiche ed i suoi dribbing irresistibili.

Nato in una famiglia povera di Pau Grande, iniziò a giocare a pallone nei campetti sterrati della città, dove oltre agli avversari, doveva affrontare lo scetticismo con cui veniva visto a causa delle sue gambe storte. Il Botafogo fu la prima squadra a scommettere su di lui, grazie a Gentil Cardoso, che lo aveva visto giocare e lo inserì subito in prima squadra. Con questa maglia resterà per dodici stagioni, vincendo tre campionati di Sao Paolo e due Carioca e mettendo a segno per 230 reti.

Il dribbing era il suo pezzo forte: il difetto fisico, che gli avrebbe dovuto impedire persino di camminare, si rivelò la sua arma vincente. Ancora oggi capita di sentir dire “un dribbling alla Garrincha”, ma difficilmente quel gesto può essere emulato. Finta verso sinistra, accellerazione, passo a destra, ancora accellerazione e conversione al centro: solo a descrivere il movimento fa girare la testa, figuriamoci come restavano i suoi avversari nel vederlo scappare!

Olympiastadion: il teatro della vittoria azzurra

Olympiastadion: quanti ricordi legati a questo nome! Era il 9 luglio del 2006 e l’Italia sollevava al cielo la sua quarta Coppa del Mondo sul prato di questo stadio, il cui nome resterà impresso nella memoria dei tifosi come fu per il Santiago Bernabeu nel 1982.

Uno stadio portafortuna per la nazionale italiana che in questo impianto aveva già vinto l’oro nel ’36 , in quella stessa olimpiade che portò sul tetto del mondo un giovane di colore, Jesse Owens, vincitore di quattro medaglie d’oro, proprio sotto gli occhi di Adolf Hitler, sostenitore della superiorità della razza ariana.

Lo stadio olimpico di Berlino venne completamente ricostruito al posto del vecchio Deutsches Stadion proprio in occasione della kermesse olimpica ed il numero dei posti venne portato da 40.000 a 110.000. Per settanta anni la struttura è rimasta pressoché inalterata, fino all’assegnazione dei Mondiali del 2006, quando si imponeva una ristrutturazione per garantire le norme di sicurezza richieste per l’evento.

Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!

Era l’undici luglio 1982 e l’Italia si vestiva a festa per l’ultimo capitolo dell’entusiasmante Mondiale in terra di Spagna. Nessuno ci avrebbe scommesso alla partenza dal ritiro e men che mai dopo le prime tre partite deludenti nel girone, che ci aveva messo di fronte squadre che sembravano ampiamente alla nostra portata. Polemiche a non finire, i giornali si chiedevano il motivo di certe scelte di Bearzot, che si ostinava a mandare in campo una formazione dimostratasi fin lì al di sotto delle aspettative.

Poi arrivò l’Argentina di Maradona, rispedita a casa con la coda tra le gambe, ed il Brasile dei grandi campioni, che avrebbe dovuto fare dell’Italietta un sol boccone e che invece risvegliò l’assonnato Paolo Rossi, facendolo entrare nella leggenda. Un gioco da ragazzi, la semifinale con la Polonia, battuta con due gol dello stesso Pablito, che ci lanciarono direttamente nella finale con la Germania.

Ed ora sembrava tutto facile, l’Italia non era più tanto piccola ed era consapevole della sua forza in campo, mentre da fuori nessuno più osava criticare il ct, che stava per farci vivere il sogno più bello. Ma non fu così facile, non subito almeno, perché una finale è una partita a sé e la paura di perdere può fare brutti scherzi.