“Un adolescente su tre è disposto a fare uso di sostanze illecite pur di raggiungere il successo nel mondo del calcio. La cosa ancora più inquietante è che il 10% di loro si dichiara ‘pronto a morire per uso di questo sostanze’, pur di assomigliare al proprio idolo sportivo”
Questa è la miglior presentazione che si può fare di Carlo Petrini, calciatore degli anni ’70 di Milan, Bologna, Genoa, Roma e tante altre squadre. Uno dei pochi che, a causa della sua malattia e di quella che ha colpito suo figlio a soli 19 anni (e per la quale è morto), ha il coraggio di denunciare a voce alta il doping nel calcio. Ieri l’intervista a Sky ha riaperto una delle ferite più grosse del calcio italiano, e potrebbe avere echi importanti.
Petrini da più di 10 anni si batte per far emergere la verità su un mondo che sembra tutto rose e fiori, ma che in realtà è “molto ipocrita“, fatto non solo di doping, ma anche di partite truccate, scommesse, soldi in nero e sfrenatezze sessuali, come ha denunciato in molti suoi libri, purtroppo mai pubblicizzati sui media tradizionali perchè piuttosto scomodi.
Nell’intervista in questione parla della prima volta in cui ha “subìto” il doping, perchè lo hanno costretto a doparsi. Era il 1967 quando Giorgio Ghezzi, allenatore del Genoa, costringeva i suoi calciatori ad assumere una sostanza sconosciuta per farli correre in campo senza sentire la fatica.
“Ai miei tempi, le siringhe gettabili non esistevano, esistevano grosse siringhe di vetro che si facevano bollire in scatoline d’acciaio insieme all’ago. Quel giorno, quell’ago entrò cinque volte in quel tappo rosso e in cinque sederi diversi, senza essere mai cambiato. Quando entrammo in campo ci rendemmo conto di quello che ci avevano dato, perché quel giorno potevamo morirci su quel terreno: correre, saltare, cadere, presentarsi davanti al portiere, avere la mente lucida e ripartire senza avere mai il fiatone, avevi una forza in corpo che era inimmaginabile in altri momenti. Mi ricordo, durante la partita, che una leggera bava verde usciva dalla bocca e dovevi togliertela dalle labbra per poter respirare correttamente. Alla fine della partita, quando pensavi che tutto fosse finito, non era finito un bel niente, perché avevi ancora tanta forza in corpo che non riuscivi a stare fermo. Un altro effetto di quella roba era che la lingua si gonfiava da non tenerla quasi in bocca, dovevi stare con la bocca aperta. Poi, verso le 3-4 di notte, quando finalmente la fatica ti dava l’ultimo tocco, ti addormentavi dove ti trovavi. Nessuno si è preoccupato di sapere che queste cose avrebbero potuto causare dei danni irrimediabili alla nostra salute”
Parole scioccanti che non c’è nemmeno bisogno di commentare.
Commenti (1)